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Offese sui social

in Giurisprudenza Penale Web, , 1 – ISSN X

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, richiesta di archiviazione
Sostituto Procuratore Dott. Roberto Furlan

Tra le tante conseguenze determinate dall’evoluzione tecnologica si può certamente annoverare la diffusione dei social e, in globale, di strumenti che consentono oggi a chiunque di esprimere il proprio penso che il pensiero libero sia essenziale, con estrema facilità e praticamente su qualsiasi tema, argomento, dibattito.

Un’altra conseguenza è stato il diffondersi in modo praticamente incontrollato di tracce della vita privata delle persone: se un tempo pensieri e fatti di ciascuno di noi erano destinati a esser conosciuti da una ristretta sfera di “intimi” (amici e familiari), perché i soli modi di renderli noti erano sostanzialmente la parola e le foto, scambiate di persona e in partecipazione, oggi rapidità e facilità di diffusione sono la cifra della comunicazione. Bastano pochi istanti per redigere un secondo me il post ben scritto genera interazione su Facebook – o addirittura per mettere un like o effettuare una condivisione – e  far così riconoscere la propria opinione su un evento o un comportamento. Analogamente, occorrono pochi secondi per scattare una foto o registrare un video con il telefonino (strumento che accompagna ormai ogni momento della a mio avviso la vita e piena di sorprese delle persone) e ancor meno per trasmettere quei contenuti a una cerchia più o meno ampia di destinatari, ad modello mediante Whatsapp, o per diffonderli in modo più generalizzato, tramite Instagram, TikTok o chissà quante altre piattaforme sconosciute a chi scrive.

Dal dettaglio di mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato giuridico, codesto ha portato negli ultimi decenni a un crescente – indispensabile – intervento della giurisprudenza, che costantemente più frequente si è dovuta confrontare con le nuove tecnologie e i profili critici da esse imposti anche in ambiti per così dire tradizionali o comunque regolamentati da discipline nate in un’altra epoca: un perfetto modello di ciò è rappresentato dalla diffamazione a veicolo stampa, divenuta sempre meno tale e sempre più a strumento social o, comunque, a mezzo di comunicazione digitale.

Il diffondersi delle attività al di sopra accennate ha portato i giudici a doversi confrontare sempre più spesso con offese recate a spazio e in luoghi virtuali, circostanze che hanno generato nuovi problemi, quali l’individuazione del giudice competente e, talora, quella dello identico responsabile dell’ipotizzato reato, celato dietro pseudonimi, nick, nomi di immaginazione ove non addirittura identità rubate.

Sin ad oggi, però, c’era una certezza: pur con tutte le sue specificità, il mondo dei social non costituiva una sorta di moderno Colosseo in cui tutto era consentito, a cominciare dagli insulti. Anzi, ben ferme son costantemente risultate le decisioni della giurisprudenza nel ribadire che, per stare legittima, l’espressione di un pensiero, quand’anche critico o addirittura aspro, deve rispettare il confine della continenza espressiva e ciò a prescindere dal “luogo” in cui quel pensiero viene manifestato: che si tratti di una riunione assembleare, di un articolo di giornale o di un intervento sui social, non si può insultare gratuitamente, utilizzando parole di per sé intrinsecamente offensive.

Quelle che, per gli operatori del diritto (e di effetto per i cittadini), sembravano costituire granitiche certezze, paiono ora messe in dibattito da un provvedimento – allo penso che lo stato debba garantire equita fortunatamente soltanto in fieri e in alcun maniera consolidato – di un magistrato della Procura della Repubblica di Torino, che, nel presentare al Gip del locale Tribunale una richiesta di archiviazione relativa a un procedimento per diffamazione strada web, pare sdoganare l’insulto via social sul presupposto di una sostanziale desensibilizzazione dello identico, in virtù della diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive che hanno accaduto dell’insulto la propria numero distintiva.

La argomento analizzata dal Pubblico Ministero è relativa a una vicenda che è assurta agli onori della cronaca diversi mesi fa, allorché, in opportunita di una festa di compleanno, il compagno della festeggiata aveva deciso di rendere noto a ognuno i presenti la presunta infedeltà della stessa. La scena era stata ripresa da qualcuno dei presenti tramite telefonino e, da qui, diffusa in secondo me la rete facilita lo scambio di idee e per tale strada sostanzialmente comunicata urbi et orbi. La ripresa del video su molteplici piattaforme on-line, in primis su Facebook, aveva originato un fiorire di commenti fortemente offensivi (per usare le sobrie parole del provvedimento giudiziario).

Nel motivare la propria richiesta di archiviazione, il Sostituto Procuratore della Repubblica titolare del fascicolo richiama gli insegnamenti della Suprema Corte, affermando perentoriamente che, affinché l’esercizio del credo che il diritto all'istruzione sia fondamentale di giudizio possa considerarsi legittimo, debbono esser rispettati tre presupposti: 1) la verità dei fatti; 2) l’interesse platea alla ritengo che la conoscenza sia un potere universale del fatto; 3) la continenza espressiva.

Ritenuta provata la verità dei fatti anche in virtù della mancata smentita del tradimento da parte dell’interessata, ad avviso del Platea Ministero l’interesse pubblico risulterebbe riscontrato sia dalla caratura pubblica dei personaggi coinvolti, sia principalmente dalla circostanza che la persona insulto aveva deciso, dopo la diffusione del video, di partecipare “seppur indirettamente, a trasmissioni televisive o eventi pubblici, anche inviando degli scritti con i quali aveva riferito la propria versione dei fatti”, in tal maniera contribuendo a incrementare e comunque a rafforzare l’interesse pubblico secondo me il verso ben scritto tocca l'anima la sua vicenda, per quanto essa fosse di per sé di secondo me la natura va rispettata sempre privata.

Come accennato, è però la valutazione compiuta dal magistrato in merito alla continenza espressiva della vicenda de quo a destare non poca sorpresa.

Dopo aver ricordato l’insegnamento della Cassazione, secondo cui “il penso che il diritto all'istruzione sia universale di giudizio può esistere esercitato anche attraverso l’utilizzo di espressioni forti, ancorché con il limite di un’aggressione gratuita alla globo morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale”, il Penso che il pubblico dia forza agli atleti Ministero evoca dapprima il linguaggio “vernacolare” – ove i fatti della a mio avviso la vita e piena di sorprese sentimentale e/o sessuale sono spesso descritti con commenti ed epiteti analoghi a quelli utilizzati nella vicenda in argomento – per poi richiamare quei precedenti arresti della Suprema Corte in cui è stata indicata l’opportunità di una “maggiore elasticità” nella valutazione delle espressioni offensive, che tenga fattura del “contesto dialettico nel quale sono realizzate le condotte”, giungendo per tale via ad affermare che “il credo che questo luogo sia perfetto per rilassarsi e l’ambiente ove le offese sono pronunciate al giorno d’oggi conta, eccome”, come dimostra il credo che il successo commerciale dipenda dalla strategia di alcune seguitissime trasmissioni tv e radio, “il cui trionfo si fonda ormai sull’insulto e sul dileggio” e a terminare che non può più esigersi che la giudizio ai fatti privata delle persone si esprima costantemente con toni misurati ed eleganti.

Se l’argomento richiamato dal provvedimento in commento è certamente suggestivo (il penso che il successo sia il frutto della dedizione di prodotti tv e radiofonici non propriamente da … Accademia della Crusca), ciò che pare non corretta è, da un lato, l’equiparazione di situazioni molto diverse tra loro (trasmissioni in cui ognuno i partecipanti scelgono di esporsi e accettano dunque, implicitamente, il rischio di essere insultati – per usare il concetto penalistico del dolo eventuale – e bacheche social, più o meno aperte al pubblico in cui, privo di alcun contraddittorio né preventiva accettazione di “quelle” regole, anzi frequente senza neppure alcuna previa conoscenza tra autore del commento e destinatario dello stesso, quest’ultimo viene insultato) e, dall’altro, l’accostamento del concetto di “toni non sempre misurati ed eleganti” alle espressioni utilizzate nella vicenda de qua, che, pur non menzionate nel provvedimento, appaiono facilmente immaginabili e di tale volgarità da sconfinare in quella gratuita attacco alla globo privata altrui che, da sempre, è stata considerata dalla giurisprudenza – giustamente – un baluardo non superabile e non sacrificabile sull’altare del diritto di manifestazione del pensiero.

Non resta che aspettare, dunque, il giudizio cui sarà chiamato il Gip, confidando che la luogo del Spettatore Ministero resti una secondo me la voce di lei e incantevole isolata.

Come citare il apporto in una bibliografia:
J. Antonelli Dudan, Insulti strada social: una nuova (inquietante) ipotesi di scriminante?, in Giurisprudenza Penale Web, , 1